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Sistema Teatrale Veronese Comune di Verona
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TIPI UMANI SEDUTI AL CHIUSO

Lucia Calamaro | TSV Teatro Nazionale

Teatro Camploy alle ore 20:45

Lucia Calamaro | TSV Teatro Nazionale

TIPI UMANI SEDUTI AL CHIUSO

Lucia Calamaro | TSV Teatro Nazionale

Teatro Camploy alle ore 20:45

Lucia Calamaro | TSV Teatro Nazionale

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testo e regia di Lucia Calamaro
con Riccardo Goretti, Lorenzo Maragoni, Cristiano Moioli, Cristiano Parolin, Filippo Quezel, Susanna Re, Simona Senzacqua
aiuto regia Norman Quaglierini
assistente alla drammaturgia Sonia Soro
scene Alberto Nonnato
costumi Lauretta Salvagnin
luci Nicolò Pozzerle
musiche Susanna Re
direttore di scena Paolo Federico Rossi
fonico  Giacomo Venturi
sarta  Sara  Gicoradi
amministratrice di compagnia Federica Furlanis
produzione TSV – Teatro Nazionale
in collaborazione con l’
Università degli Studi di Padova. Progetto ideato nel 2022 per le celebrazioni degli 800 anni dell’Ateneo
Lo spettacolo si inserisce nel progetto della Compagnia Giovani, parte dell’Accordo di Programma tra Regione Veneto e Teatro Stabile del Veneto per la realizzazione del Progetto Te.S.eO. Veneto – Teatro Scuola e Occupazione (DGR n. 1646 del 19 dicembre 2022).

E in tutta questa complessità devastante, ecco la nostra biblioteca.
Oggetto semplice e circoscritto, affetto da sospettosa nostalgia del Novecento, lento, poco abitato, dove il corpo si piega alla téchne della sedia. L’animale umano si china su un libro e la bestia tace.
Impossibile leggere o fare altro.
La lettura è un’attività esclusiva.

Qui troviamo una donna, Simona, che di mestiere scrive, ma non riesce a farlo a casa sua. Il suo immaginario si riattiva solo e unicamente in biblioteche piccole e poco frequentate, come la nostra; biblioteche univesitarie o di quartiere.
Nella mente di Simona, appaiono piccole figure minori. Ci sono tre bibliotecari: Riccardo, suo nipote Cristiano, e Lorenzo, ognuno con una biografia spampanata. Riccardo, sentimentale e buono senza scampo, ha un figlio in rivolta col mondo, il giovane Cristiano (nome ricorrente in famiglia), sofferto e sfiduciato che ce l’ha su con tutto, ma soprattutto con se stesso. La moglie di Riccardo, Laura, è via, si è presa una vacanza dalla casa. Torna? Mah. Il nipote Cristiano è un nostalgico dell’Ottocento, non trova pace o conforto alcuno nella contemporaneità, è fuori tempo. Lorenzo è contento di essere lì e di essere bibliotecario. L’unico un po’ vitale. Classicamente innamorato di Susanna, una ragazza in lotta dichiarata col sistema, che proprio non lo vuole e che suona note tristi.

Simona fa arrivare in questa biblioteca – tinello di umori e stati d’animo mesti – lo straniero che cerca lavoro, Filippo, tipo strano, curatore d’arte d’improbabili artisti conosciuti solo da lui, colto ma d’impianto inaffidabile.
I soliti temi bussano alla sua solita vita. I personaggi vanno e vengono. I toni a volte si alzano, il cuore non sa che farci di esser cuore. Certe note assemblate sgocciolano malinconia.

Simona vorrebbe dire altro, ma in un’intera esistenza si hanno solo tre o quattro idee sulle cose e sul mondo, che si ripetono in forme diverse; e che in lei, oggi, stanno perdendo senso.
C’è il sentimento (i libri), l’abbandono (i libri), l’impossibile (i libri), le righe (i libri), l’inadeguatezza, il Santo e il tempo fermo (i libri), il Teatro Anatomico, il sangue e il suo polso (i libri), e la rabbia.
La rabbia e i libri.
E poi il disarmo.
L’impotenza di pensare l’impensabile.
Di dire quello che non si è capito.

“Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere”, Wittgenstein.
(Lucia Calamaro)

NOTE DI REGIA.
Questo lavoro cerca di tratteggiare attraverso la metafora della circolazione – circolazione delle parole, dei libri, del sangue ,degli affetti – ; attraverso, quindi, il costante flusso dei movimenti che compongono l’andirivieni di un’esistenza, due luoghi particolarmente lontani, ma allo stesso tempo fondanti, dell’umano: l’intelligenza e l’animalità.

Luoghi che, ci sembra, quando raggiungono i loro rispettivi apici, si trasformano in poesia o in scienza da una parte, e in rabbia e violenza dall’altra.
La sensazione, del tutto personale, è che questo presente – che è il nostro – si muova unicamente tra questi due estremi, e oramai da un po’.

L’arrivo della più grande biblioteca mai immaginabile, Google e i suoi corollari, l’ossessione per la conservazione, la registrazione e la messa in memoria -quindi, in qualche modo, il processare come fatto storico, la necessità di tramandare ogni piccola e miserrima pratica quotidiana- hanno imposto all’umano un nuovo tipo di alienazione dello sguardo. Siamo tutti nel panopticon di qualcun’altro, che è a sua volta nel nostro, e del quale noi siamo allo stesso tempo guardiani, creatori, guardati, e così via.
L’importante è registrare tutto. Dare vita al di là dell’organico. Digitalizzare la vita è il bisogno. Imposto da chi? Perché? A cosa serve?
La registrazione come nuova pulsione. E poi, da lì, tartarughe fino in fondo.

Questo fenomeno, sempre in atto e, per via della sua vastità, insondabile se non per micro tentativi, -così come le sue conseguenze sulle pratiche dell’umano- ha, fra l’altro,(e questa è una mia sensazione che non vuole esser più di questo), bizzarramente danneggiato il termostato delle mezze misure.
Gli stati delle persone sono quasi sempre acuti, e attengono, per lo più, a quella vasta steppa delle sindromi psichiche non meglio identificate detta bipolarismo.
Un’umanità che sta giù di giri, facendo comunella col sentimento di morte, e un attimo dopo sta troppo su, freneticamente e sempre; oppure finge, e si morde la coda, cercando la miglior immagine di se stessa al meglio, non trovandola e sentendosi non all’altezza. Mai. Di niente. Urlando, perciò, frustrazione, in permanente cupio dissolvi.

La parola e, con lei, il libro come strumento principe di una qualsivoglia griglia interpretativa del mondo, sembrano aver fallito. L’ossessione di acchiappare nella maglia alfabetica un reale sgusciante – che, quanto più è scivoloso, tanto più c’è la frenesia di dirlo, di fraseggiarlo, storificarlo, di metterlo giù, di descriverlo, di prenderlo, di farcela finalmente a dirlo, di renderlo intellegibile, almeno ogni tanto, in un’arborescenza compulsiva di parole e pensieri infiniti – è stata messa giù e messa via. O l’immagine l’ha divorata.

Ma l’immagine non deve esser capita, la parola sì. L’immagine non media il mondo:l’immagine è il mondo. Mondo che ci arriva, quindi, costantemente addosso in tutte le taglie, misure, velocità; e questo avviene in ogni momento senza soluzione di continuità. E lo fa con una potenza così schiacciante che l’Ente in noi annaspa, moribondeggia, ci casca dentro, quasi si scioglie e, cercando comunque per istinto di resistere – visto il potere assoluto e pre-verbale dell’immagine – alla fine urla, si incazza e rompe.

Rabbia.
Rabbia senza odio, senza motivo o causa.
Rabbia per dire No all’immagine.
Per rompere la prigione dell’immagine che non ha corpo.
Rabbia contro l’invasione del mondo che entra tutto assieme nella tua testa, e ti schiaccia dentro camera tua.
La violazione dell’intimità, causata dall’immagine continua, è direttamente proporzionale alla sensazione di non esistere più che l’immagine stessa procura.
E se non esisti, che campi a fare?
Esiste lei. Di te non c’è più bisogno.
Gli altri non vogliono te. Vogliono il tuo te digitalizzato.
Ed è lì che qualcosa finalmente si rompe e fa male.
E il male diventa solido, corpo, oggetto.
Principalmente da rompere. Il tuo, quello degli altri, quello delle cose.
È l’animale che ringhia e schiaccia il giocattolo prodotto dalla sua intelligenza.
Povera bestia, non era preparata.
(Lucia Calamaro)

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